Wladimiro Dorigo

Tesi di Laurea ad Honoris Causa presentata e letta pubblicamente al Rettore dello IUAV nel dicembre 2005

La società del Canaleclus

fra il Canal grande e il caput de Canareglio

 

L’evoluzione del Canal grande verso la svolta della “zirada”, e gli alvei correlati del canale Beculus[1] e del Canaleclus[2], circoscrivendo l’area urbana più settentrionale della regione di Luprio[3], offrirono fra l’XI e il XII secolo agli “homines qui habitant in Canaleclo[4] l’opportunità di un forte sviluppo urbanistico. Ciò avvenne peraltro abbastanza lentamente, mediante bonifiche progressive verso nord lungo le rive di quello che nel Trecento sarebbe stato riconosciuto come il grande asse acqueo titolare del sestiere di Cannaregio, e animatore di una delle più grandi parrocchie della città nascente, quella di S. Geremia.

All’inizio di questa storia, quella grande via d’acqua, che alimentava il Canal grande dopo essersi momentaneamente separata da un ramo minore, appunto il canale Beculo, a sud del monastero dei santi Secondo ed Erasmo[5], altro non era che la prosecuzione del flumen de Mestre (il Marzenego), il quale, secondo la citata sentenza 6 della magistratura del Piovego del 1284, confluiva infine per i due rami nel Canale urbano[6]. Queste diversificazioni idronomastiche di un unico alveo dolce ben esprimono una concezione originaria anche ambientalmente distaccata della regione di S. Lucia e S. Geremia rispetto alla Civitas Rivoalti di allora; non a caso, come ancor oggi avviene nella laguna nord oltre Torcello, dove p.e. l’alveo del canale La Dolce conserva per un paio di chilometri una folta vegetazione di Phragmites australis (canna di palude), le fonti citano frequentemente la presenza del canneto nel tratto settentrionale del canale di Cannaregio[7]. Già alla metà del XII secolo, se non prima, seguivano quella via d’acqua gli homines che “solent venire de Mestre[8], e i rapporti con il territorio marginale della terraferma poterono essere ben usuali se ancora nel Settecento la parrocchia di S. Geremia estendeva “la sua giurisdizione sino mezzo il ponte di Marghera”, compreso “Bottenigo Basso”, sì che da quelle località i neonati venivano trasportati nella chiesa di S. Geremia per il battesimo[9]. Quel percorso non era recente e non si svolgeva in un deserto di paludi: una fonte del 1118  nomina proprietà dei monasteri di S. Nicolò e S. Lorenzo, e di Domenico Baduario Noeli, e reca toponimi e idronimi della gronda lagunare di qualche rilievo (Diano Maiore, Ripa Alta, rivo Beati Vitalis, rivo Iubiano Auloypato)[10]; quest’ultimo è nientemeno che il nome di un primatus di Luprio, che firma come teste insieme con il tribuno Armatus di Luprio e con il tribuno Vigilius di Gemini una convenzione dell’880 fra il duca Orso e il patriarca di Aquileia Hualperto[11]. Su quel percorso fu fondata nel 1209 la torre di Marghera e, in quegli stessi anni, quella di S. Giuliano della palada, accanto a un omonimo ospedale ecclesiastico[12]; e a mezza strada verso S. Geremia vi si trovò fin dal 1034 secondo il Sansovino il monastero dei santi Secondo ed Erasmo, fondato dalla famiglia Baffo, con un campanile rotondo di tradizione ravennate[13].

Nel contesto di questa vasta regione venetica di Luprio gli homines del Canaleclo vissero dunque l’età delle origini in probabile relativa autonomia sociale dalla Civitas Rivoalti, e certo non furono stimolati a rapida integrazione urbana dalla donazione al monastero di S. Secondo voluta dal doge Vitale Falier nel 1089, il quale, mosso a compassione della situazione pauperrimamet in maxima necessitate coactam” di quelle monache, cedette loro “unum fundamentum de nostro palacio[14]. Esso era contiguo a un altro fundamentum salinarum, di Pietro Foscari Russo, che si trovava nell’area dell’attuale stazione ferroviaria, oltre un argine che è riconoscibile nella calle Priuli, in giurisdizione che sarà propria della chiesa di S. Lucia[15]. Se i compagnones delle saline del Foscari abitavano nel 1087 nelle “mansiones edificatas de contra Canale”, cioè lungo la riva del Canal grande, gli homines de Canaleclo risiedevano presso la loro chiesa di S. Geremia[16], cioè nelle isole fluviali poste fra il Canale e il rivus pitulus, che è riconoscibile nell’attuale lista di Spagna, e anche lungo la più prossima riva destra del Canaleclo[17]. Fra essi emergeva ancora nel XIII secolo la famiglia Steno[18]. Le monache di S. Secondo convertirono nel passaggio fra l’XI e il XII secolo il loro fundamentum in un lacus aquimoli (ante 1138)[19], come del resto avvenne altrove, in connessione con l’acme della coeva trasgressione marina[20], e in quell’anno cominciarono a cedere agli abitanti del luogo modeste porzioni del loro lago, poste marginalmente al rivus pitulus e al Canaleclo, con l’obbligo di creare lungo quei corsi d’acqua “unum callem latum pedes tres…comunis”: erano “pecie de luto aqua super labente”, e l’avvio di quella prima urbanizzazione dovette essere lento e faticoso. Fatto si è che rari sono fra i documenti del monastero, pur abbastanza numerosi nel corso del secolo XII e dei primi decenni del XIII, quelli che attestano quel processo[21], mentre ancor nel 1177 una bolla del papa Alessandro III, data in Venezia in occasione del suo incontro con il Barbarossa, accerta che lungo il Canaliclus, probabilmente in un tratto ricompreso tra la calle Rielo e il rio della crea, si trovavano “duo sedilio molendinorum[22], cioè due mulini che giravano sotto l’impulso dell’onda di marea in entrata e in uscita dal lago.

Comechessia, nel corso del Duecento l’attività sulle pecie de luto bonificate (talvolta rimaste in proprietà del monastero) è molto più intensamente documentata, sia lungo la lista di Spagna23, sia lungo la fondamenta Savorgnan e oltre il Rielo, verso il rio della crea[24], denominato ab antiquo (1289) “rivus Dei ecclesie”, cioè della chiesa di S. Secondo; e non mancano documenti di residenza di note famiglie (Lombardo, Michiel, Venier, Polo) sull’altra riva del Canaleclo[25] (che ormai vien detto canale de Canareglo), con penetrazione verso la palus S. Hermachore[26], a nord del rivus S. Leonardi, cioè dell’attuale omonimo rio terrà. Non possiamo peraltro accertare, mediante la lettura delle carte citate, fino a che punto verso nord sia avanzato il processo di bonifica e di insediamento sulle due rive del canale di Cannaregio durante il Duecento e oltre, fino almeno alla metà del Trecento, perché pochi di quegli atti forniscono informazione sufficiente a ubicare le proprietà lungo le fondamente. È certo però che una decisione importante sopravvenne nel 1284, da parte dei magistrati del Piovego, a modificare il quadro delle possibilità e delle opportunità[27]. Con una sentenza del 5 aprile di quell’anno Marco da Canal, Filippo Ghisi e Nicola Falier deliberavano il riconoscimento di pubblica proprietà comunale dell’“aqua et palus versus Sanctum Secundum” contro le carte e le ragioni del monastero. La confinazione si fondò, dopo attenta ispezione sopra luogo, su terminis et metis posti dagli stessi giudici, e non è sicuro il suo riconoscimento verso sud, cioè verso il fundamentum donato dal doge Vitale Falier nel 1089, che pure venne confermato nei diritti delle monache; il confine può essere identificato a mio giudizio nel rio della crea.

Per effetto di quella sentenza il monastero non poté continuare a cedere aree di palude verso nord, e al posto dei suoi contratti di livello si affermarono le grazie per bonifica di palude del Comune, la prima delle quali si data al 1306[28]. Solo nel Trecento, in effetti, la crescita urbanistica e demografica della parrocchia di S. Geremia appare matura, veloce, e caratterizzata da legame crescente con la città, anche entrando a contatto con le parrocchie vicine di S. Leonardo e S. Marcuola: evento significativo appare al riguardo la costruzione del primo pons Canaregli sive S. Leonardi, ligneo e apribile come ancora lo rappresenta il de’Barbari alla fine del Quattrocento, che lascerà poi il posto al ponte delle guglie; la prima notizia è del 1323[29], ma è interessante notare che verso la fine del Duecento il Maggior Consiglio aveva respinto per due volte la proposta locale di costruzione[30]. Nemmeno la città sentì dunque per tempo l’urgenza di un rapporto più stretto e comodo con questa periferia isolata, dove una modesta conquista privatistica di cornici di palude qualificava il carattere elementare di un’economia d’insediamento spontaneo, che trovava ricetto in sequenze ininterrotte di stretti rettangoli di terreno, allineati su una via comune marginale ad autonomo percorso acqueo, e progressivamente allungati verso l’interno retrostante con opere di volontaristica bonifica. La prima urbanizzazione rivelava ancora all’inizio del Trecento i suoi prevalenti caratteri seriali, poveri, in sistematiche cadenze di terre vacue e orti nel contesto di un’edilizia popolare, che fra i mestieri citati, di buon artigianato o di umile servizio, ospitava platerii, remarii e barcharii, scudellarii, butiglarii, draperii, chalegarii e tentori, barberii, becharii, e una pancogola[31]. In quel panorama socio-ambientale la documentazione segnala, particolarmente nei decenni più tardi, alcuni episodi edilizi maggiori, in mano ai soliti Steno, e a qualche altra famiglia eminente come i da Molin, i Barozzi, i Davanzago, i Trevisan[32]; ma soprattutto si distinguono molti altri cognomi delle grandi famiglie come titolari di proprietà pur prive di alta qualificazione, acquisite probabilmente dai più modesti pionieri della bonifica, configurando in particolare fra il 1320 e il 1360 un significativo mercato immobiliare promosso dalla domanda del ceto maggiore urbano che, come in altre zone periferiche (S. Marziale p.e.), trovava di suo interesse venire a risiedere, o forse anche solo a investire, in funzione di diffusa rendita edilizia[33].

La politica comunale delle gratie su ritagli di palude da bonificare assunse probabilmente qualche carattere prescrittivo diverso da quello delle cessioni onerose praticate dal monastero, che era stato impostato nell’ottica del mantenimento della funzionalità produttiva del lago, e quindi orientato per molto tempo a delimitare le pecie de luto fabbricabili soltanto lungo i suoi margini. L’ottica del governo originava dalla costituzione della magistratura del Piovego – super publicis – del 1282[34], mirante ad acquisire, o riacquisire, al “pubblico”, more romano, tutte le acque o superfici umide di cui i privati, e soprattutto i monasteri, non potessero produrre titoli di proprietà, e su di essa, visto il successo di alcune grandi lottizzazioni di palude da parte ecclesiastica, a S. Pietro di Castello come a S. Gregorio[35], era cresciuta la determinazione di guidare tecnicamente e di gestire politicamente mediante grazia ducale ampliamenti urbani considerevoli sulla palude contigua all’abitato. Tuttavia, la novità dell’intervento comunale ereditò anche modalità tecniche documentate in atti del monastero: uno dei suoi ultimi contratti, di eccezionale portata, concedeva p.e. nel 1327 ad affitto per 15 anni a due fratelli Grimani, per mano del procuratore delle monache Marco Nadal – ecco i nobili da ambo le parti –, una vasta “terram vacuam de novo ellevatam”, lunga 60 passi e larga 53 (= m 104,31 x 92,14), la quale era ricompresa dalla palude su tutti quattro i lati, e poté essere ubicata fra il Riello e il rio della crea. Le prescrizioni erano impegnative, e presuppongono un’elaborazione tecnico-economica assente nelle concessioni livellarie precedenti delle monache. Gli affittuari erano tenuti a palificare due lati della superficie cui non avevano provveduto i concessionari precedenti, un Alberto de la canna e un Giovanni Paduano, impiegando “palis, catenis et alius indigentibus dicte palate”, ricaricando il fondo (“ipsam furnire et sic facere et ipsam ellevare”), in modo da tenerla “in culmo et in concio…semper meliorando”, e, si capisce, “vestris propriis laboribus et expensis[36]. Dimensioni, armatura, livello del terreno indicano i caratteri del processo culturale cui si ispirò infine, come a S. Marziale, alla Zueca nova[37], e a S. Pietro di Castello l’urbanistica comunale intesa all’espansione della città sulle paludi, sempre più emergenti per la regressione marina dei secoli XIV e XV[38].

A S. Geremia questa cultura si esercitò raggiungendo in quell’arco di tempo un punto che fu infine chiamato “caput Canaregli”, “caput rivi Canaregli” (“cavo de Canareglio”)[39]: la marcia sulla palude fu ancora progressiva, senza apparenti elementi di pianificazione comunale, che non fossero quelli di una delimitazione verso il rio, ovvia e predeterminata dallo stesso corso d’acqua, e verso la palude sud-occidentale, dove invece una preventiva confinazione (si veda la pianta del de’Barbari) sembra essere mancata, data la conformazione del tutto irregolare e occasionale dell’area bonificata[40]. Anche la ripetitività di quelle che chiamiamo oggi destinazioni d’uso, fra le quali emergono la tintoria, la macellazione, la cantieristica, la terracotta (si ricordi il rio della crea) non implica per sé selezione preventiva, ma, come del resto avvenne in altre aree periferiche settentrionali della città, suggerisce piuttosto orientamenti indiretti, capaci di favorire qualche opportunità generale. Basti ricordare al riguardo il seguito di disposizioni che, a partire dal Duecento, avevano limitato, escluso o scoraggiato in città le lavorazioni più inquinanti e disturbanti: la tintura dei panni e delle tele, che ebbe p.e. nel 1316 e nel 1366 ordini di severa disciplina relativa all’“aquam tintam et immundam[41], fu interessata con ulteriore specificità da un divieto del 1410 “de guado vel sanguine tingere intra corpus civitatis”, “salvo super extremitatibus et locis qui prospiciunt versus paludes a parte exteriori”; ne seguì un’interpretazione ufficiale confermativa, nel 1414, su richiesta di un tintore con apothecain rivo Magno Kanaregli”, che non deve certo essere risultata soddisfacente per il postulante[42]. A condizione di spurgare nella palude, a nord e a sud-ovest, e non nel rivo, l’“arte del guado” trovò così notevole diffusione in capite Canaregli. Il citato Sumario de le gratie che son ne l’offitio d’i Pioveghi, un manoscritto del secolo XVI, dà conto di almeno 18 grazie deliberate fino al 1479 nell’area in oggetto, con cenni ad altre 7 proprietà contigue, di probabile analoga concessione: almeno cinque beneficarono tintori e l’“arte del guado”, un’erba, la Isatis tinctoria, impiegata appunto per tingere i panni in colore indaco[43]. Ne derivava la presenza di claudarie (chiovere) per l’asciugatura, attestate dalle fonti e rappresentate chiaramente dal de’Barbari[44]. Da questi atti e da altri documenti si rileva inoltre l’importanza degli insediamenti di “becheri”, fra i quali si segnalarono per entità patrimoniale i fratelli Bon Ramboldo (1379) e i Gonella (1459)[45]. Fonte (1429) e immagine (de’Barbari) aiutano pure a identificare il grande “tezon” e lo scivolo di uno squero a navibus sull’estrema punta dell’area, nell’angolo fra la palude e il rio di Cannaregio[46].

Con questi insediamenti si alternarono naturalmente una modesta edilizia residenziale (numerose le case e casette di Lorenzo de Francesco da le Telle: 1424 e 1426)[47], e notevoli strutture assistenziali ben note, come l’ospizio Zuanne Contarini (attivo dal 1380), intitolato a S. Giobbe[48], presso il grande convento quattrocentesco omonimo caro a S. Bernardino da Siena, e l’ospizio Moro, voluto dal doge Cristoforo Moro († 1471) su un terreno acquistato dal testatore presso lo “squaro in cavo de Canareglio…comprado da li Patroni de l’Arsenal”[49]: ambedue le pie opere sono pure ben visibili nell’incisione del de’Barbari; la seconda, insieme con lo squero citato, stava sul sedime del nuovo campus della Facoltà di Economia dell’Università ca’Foscari. Esse contribuirono, insieme con il famoso insediamento minorita che diede il suo nome all’ampia regione strappata alla palude, a configurarvi un più vario carattere urbano: su di esse tutto è noto, sulla base di una documentazione sicura, e se la corte Moro con le sue 16 casette per “poveri marinari” è scomparsa nel 1843 per la costruzione del Macello ottocentesco di Salvadori-Meduna e poi di Romano e Forcellini[50], l’ospizio Contarini, attraverso i rimaneggiamenti secolari, esiste ancora, fra la fondamenta di S. Giobbe e il campo della crea. Tuttavia, il panorama edilizio e sociale della punta di Cannaregio resta ancor oggi chiaramente differenziato dalla facies, implementata nel tempo, dettata dalle residenze maggiori collocate lungo il rivo verso S. Geremia e dalle loro verdi penetrazioni, pur se esse talvolta risultano travolte da alterazioni ottocentesche e da successivi impianti abitativi di nuova architettura.

Un’archeologia industriale, perduta fin dal Trecento, può essere recuperata dall’immaginazione sulla base di trascurate reliquie archivistiche, e ubicata con buona probabilità mediante diversi legami documentali, a rivelare qualche nuovo carattere produttivo di grande momento che, in sede di prima bonifica, il Comune aveva assegnato anche ad aree riscattate dalla palude salinaria e molinaria. Una “termination” dei Pioveghi del 1463 conserva in effetti una notizia di interrimento abusivo del “rio di Calonega de S. Geremia, dove che olim era la Tana del Comun”[51]: trascurabile la non infrequente cronaca dell’abuso, ma preziosa l’informazione, che si collega a una serie di fonti del 1263, 1282, 1293, 1299, 1300, 1301, 1302, 1303, 1307, 1315, 1317, 1324[52], le quali accertano l’istituzione del monopolio e l’esistenza di una domus comunis per la lavorazione del canipumin uno loco ubi videbitur fieri magis convenienter” “posita in confinio sancti Ieremie”, presa in affitto, sanzionata come sede esclusiva e già detta Tana Comunis, infine acquistata dal governo, forse da certo Tantalise de Spitali. Questa Tana peraltro dovette durare poco, poiché un nuovo imponente edificio delle Corderie lungo 320 m, la Tana nell’Arsenale nuovo, era già costruita nel 1339, e implicò l’abbandono della sede di S. Geremia[53]. Ho proposto che quella sconosciuta Tana delle origini, anche in rapporto con altre fonti del 1463 e del 1490 che avvicinavano il “rio de chalonegi” a cha Venerio, sia ubicata nella calle del Rielo[54], dove nel Trecento possono identificarsi una proprietà con “calle proprio da cha Venier” teso fra il rio di Cannaregio e la palude, e poi le proprietà di Jacobello Venier q. Marino (“una ruga domorum a segentibus”) e di Betha Venier (“terre vacue sive orti”), insieme con la calle citata[55]; ivi esiste ancora una schiera pressoché completa di case di origine trecentesca lungo una estesa di 160 m: vedi caso, la metà esatta della lunghezza delle Corderie dell’Arsenale. Anche questo episodio faticosamente ricostruibile di vocazione industriale delle paludi di S. Geremia reca un contributo significativo alla storia della trasformazione ambientale verso il caput de Canareglio.

 

31.05.2005


 


[1] ASV, S. Chiara, b.1 (20-31 maggio 1237); Codex Publicorum (Codice del Piovego), I, cur. B. Lanfranchi Strina, Venezia 1985, sentenza 6, pp. 46-50 (5 aprile 1284).

[2] Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, II, secoli IX-X, cur. R. Cessi, n. 70, pp. 139-144, a p. 143 (994-1008: trascrizione Canaledo).

[3] Nell’ambito urbano più tardi la regione di Luprio è apparsa progressivamente ristretta alla zona centrale del sestiere di S. Croce; ma ancora in A. Dandolo (Chronica per extensum descripta, aa. 46-1280 d.C., cur. E. Pastorello, «RIS», XII.I, Bologna 1938: V.XI.19, pp. 75-76) le “tumbas in Luprio situatas” accolgono la fondazione di due chiese molto lontane fra loro, “Crucis” (S. Croce) e “aliam vero sub vocabulo sanctorum Hermacore et Fortunati” (S. Marcuola): comprendevano cioè gran parte del sestiere di Cannaregio, che non figura nello stesso autore (Chronica…, cit., VIII.XII.16, p. 121) fra le “insule Gemini, Rivoalti, Luprii et Dorsoduri”, cohaderentes al castro Olibolensi. Per quanto riguarda il significato del nome, si nota che M.A. Sabellico (De situ Urbis Venetae libri III, Venezia 1502: I, I Regio, p. 10) aveva conservato fino all’alba dell’età moderna una tradizione corretta: “Luprium veteres a palustri facie dixere”: cioè da allupies (alluvione).

[4] SS. Secondo ed Erasmo, cur. E. Malipiero Ucropina, Venezia 1958, n. 1, pp. 5-8, a p. 6 (settembre 1089).

[5] Ibidem.

[6] Codex…, cit., s. 3, pp. 28-34, a pp. 30, 31, 32 (giugno 1151, maggio 1175, febbraio 1176); “flumen de Mestre qui appellatur Marcinigum” (ASV, S. Salvador, b. 12, 1280); “Flumen Mestre quod currit versus Venetias”: ASV, SEA, r. 342, c. 30 (1368).

[7] P.e.: ASV, SEA, r. 342, c. 24 (31 marzo 1339). Significativa una autorizzazione per grazia del 1353 alla vedova Francesca Moço “ipsam suam casetam cooperi et tegi[…] de cana non obstante aliquo ordine contra hoc” (ASV, Grazie, r. 13, c. 25).

[8] Codex…, cit., s. 3, a p. 30 (giugno 1151).

[9] Civico Museo Correr, mss. Gradenigo-Dolfin, n. 175.I, alle pp. 279 e 257.

[10] Codex…, cit., s. 3, a p. 29 (giugno 1118), e pp. 32-33 (26 febbraio 1283). Questi luoghi, insieme con numerosi altri toponimi e idronimi della medesima regione presso l’attuale gronda lagunare, sono più volte ricordati in altri documenti trascritti nella sentenza 10 (14 marzo 1285), del 1239, 1195, 1210, 1227, 1271, 1195, e nella stessa sentenza (Codex…, cit., pp. 64-71).

[11] Documenti…II, cit., n. 15, pp. 20-21 (gennaio 880): in questa fonte il cognome di Iubiano è corrotto in Aulibado, e Luprio assume la grafia Lubrius. Il cognome Aulypato poteva essere letto Aulus ýpatos, o aule ýpatos.

[12] G.B. Gallicciolli, Delle Memorie Venete antiche, profane ed ecclesiastiche, I-VIII, Venezia 1795: I, n. 27, p. 52: “…quod Malgariae turris statuatur” (19 dicembre 1209); V. Piva (Il Patriarcato di Venezia e le sue origini. I-II, Venezia 1938-1960: II, p. 124) data chiesa e ospedale all’anno 1200. “Ecclesiam et locum sancti Iuliani de buca de Flumine” sono citati nella s. 12 del Codex…, cit., pp. 80-82, a p. 80.

[13] F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIIII Libri, Venezia 1581, c. 86v. Il campanile a pianta circolare è ben visibile nella incisione del de’Barbari.

[14] SS. Secondo…, cit., n. 1, pp. 5-8, a p. 6. Un esercizio di restituzione in W. Dorigo, Venezia romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, I-II, Verona 2003: I, p. 37.

[15] ASV, S. Zaccaria, b. 7 pergg. (gennaio 1085 e agosto 1087 = Codice Diplomatico Veneziano, cur. L. Lanfranchi, nn. 262 e 281).

[16] In A. Dandolo (Chronica…, cit., VIIII.VII.3 (p. 210, a margine) si legge che la chiesa di S. Geremia profeta ricevette nel quinto decennio del secolo XI una reliquia di san Bartolomeo apostolo dal mercante Mauro Torselo e dal figlio Bartolomeo, di ritorno dalla Puglia, i quali della chiesa “fuerant principaliter fundatores”.

[17] La frequentazione di questi luoghi dovette essere assai antica, in ragione dei laghi citati coltivati a salina. Almeno in parte (p.e. verso sud-ovest, lungo il Canale in prossimità della giratha) essi stavano nel 1152 in giurisdizione della parrocchia dei SS. Simone e Giuda, che si trovava sulla riva meridionale del Canale, sì che la stessa parrocchia di S. Lucia (nota solo dal 1131) fu computata per molto tempo nel sestiere di S. Croce, e venne riconosciuta al sestiere di Cannaregio solo alla fine del Trecento, dopo che era stata legata ad esso nel 1315 esclusivamente per la competenza dei Signori di notte (ASV, Maggior Consiglio, l. Civicus, c. 50v (25 maggio 1315). Anche lo scavo assai antico del rio Marin, già documentato nel 994-1008 (rivo Marini: Documenti…, II, cit., n. 70, pp. 139-144, a p. 140), sembra in questa ottica legare quest’area alle imprese di colonizzazione della regione sud di Luprio, ben nota più tardi per le bonifiche del lacus Badovarius (v. W. Dorigo, Venezia…, cit., I, p. 40).

[18] Un Pietro Steno è titolare di un livello del monastero fin dal 1138 (SS. Secondo…, cit., n. 8, pp. 18-19, luglio 1138).

[19] Ivi, n. 7, pp. 16-18 (giugno 1138).

[20] Fra il canale della Giudecca e il rio terrà S. Vio il monastero dei SS. Ilario e Benedetto vende nel 1075 a Giovanni Signolo una pecia de luto acosa aqua labente (SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, curr. L. Lanfranchi e B. Strina, Venezia 1965, n. 12, pp. 47-49), facente parte del suo “laco que holim fuit fundamentum salinarum et nunc desertum permanet”. Nel vasto compendio di aque di Dorsoduro il passaggio dall’economia del sale a quella molinaria è ampiamente documentato dalle donazioni del clan dei Bonoaldo al monastero di S. Giorgio maggiore: “…aqua ubi olim fundamentum salinarum fuit et vos modo ibi aquimolum fabricatum habetis” (1081); “…paludem et aqua quae […] quondam fuit fundamentum salinarum […] ad edificandum molendinum vel fundamentum salinarum” (1119) (S. Giorgio Maggiore. II. Documenti 982-1159, cur. L. Lanfranchi, Venezia 1968, n. 51, pp. 136-138, e n. 122, pp. 268-270). Per la fenomenologia della trasgressione marina fra XI e XII secolo v. W. Dorigo, Venezia…, cit., I, pp. 34-44.

[21] SS. Secondo…, cit., n. 7 (1138), n. 9 (1139), n. 25 (1170); ASV, SS. Cosma e Damiano, b. 7 (1205, 1208, 1220, 1226).

[22] SS. Secondo…, cit., n. 30, pp. 50-53, a p. 51 (8 settembre 1177).

[23] ASV, Procuratori di S. Marco Misti. Miscellanea pergamene, b. 5 (1240); PSMM.MP, b. 3 (1251); SS. Cosma e Damiano, b. 7 (1258); ASV, Cancelleria inferiore. Notai, b. 102 (1261); ASV, Procuratori di S. Marco de ultra, b. 78 (1261); PSMM.MP, b. 4 (1266); PSMM.MP, b. 6 (1269); PSMM, b. 105A (1269); PSMM.MP, b. 6 (1277).

[24] ASV, Miscellanea di atti diplomatici e privati, b. 2 (1225); PSMM.MP, b. 2 (1233); SS. Cosma e Damiano, b. 7 (1236); PSMU.MP, b. 1 (1237); SS. Cosma e Damiano, b. 7 (1253); PSMM, b. 105A (1269); SS. Cosma e Damiano, b. 7 (1294); CI.N, b. 178 (1298); PSMU, b. 156 (1299).

[25] Archivio Patriarcale di Venezia, S. Marcuola (1218); ASV, CI.N, b. 102 (1298); CI.N, b. 30 (1298).

[26] APV, S. Marcuola (1218).

[27] Codex…, cit., s. 6.

[28] ASV, SEA, r. 219, Sumario de le gratie che son ne l’offitio d’i Pioveghi…, sub S. Gieremia: a “Dona Fina, relicta de ser Giacomo piatter da S. Gieremia”.

[29] ASV, PSMU.MP, b. 5 (18 marzo 1323).

[30] Le partes del Maggior Consiglio respinte sono datate 5 dicembre 1282 e 16 marzo 1298 (Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, cur. R. Cessi, III, Bologna 1934, pp. 15 e 435).

[31] W. Dorigo, Venezia…, cit., II, pp. 840-846, passim.

[32] Maria ved. Davanzago, “domum maiorem, cum sua porticu”, 1237 (ASV, PSMU.MP, b. 1); Marino Trevisan, “domus de petra in solario”, 1329 (ASV, CI.N, b. 126); Jacobello da Molin, “domus petrinea posita super viam comunem. Et una de lignamine posita super paludem cum suo orto sive terra vacua […] et […] cum sua curia, 1344 (ASV, CI.N, b. 126); Leonardo Steno, “proprietas magna, 1351 (ASV, PSMM, b. 94); Felicia Steno ved. Barozzi, “proprietas magna a stacio cum pluribus domibus a segentibus et cum suo orto de retro super palude”, 1364 (ASV, CI.N, b. 88).

[33] Si vedano i nomi e la selezione documentaria relativa in W. Dorigo, Venezia…, cit., II, pp. 833-834 e 840-846, passim. Analogamente, per la parrocchia di S. Marziale, ivi, I, pp. 585-586, e II, pp. 817-818 e 829-832.

[34] Codex…, cit., pp. VII-XXVIII, e 17-19; W. Dorigo, recensione al detto, in «Venezia Arti», [1] 1987, pp. 104-105.

[35] W. Dorigo, Venezia…, cit., I, pp. 588-590, e II, pp. 653-657; II, p. 957 e pp. 967-972.

[36] ASV, SS. Cosma e Damiano, b. 1 (15 luglio 1327). Una cintura palificata (“pecia de terra circumdata nunc de palis”) di recente realizzazione lungo il rivus pitulus si data precedentemente (5 dicembre 1269: ASV, PSMM, b. 105A).

[37] W. Dorigo, Venezia…, cit., II, pp. 989-990 e 1002-1003.

[38] W. Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983: II, pp. 414-428.

[39] Codex…, cit., s. 6, p. 48 (1284); ASV, SEA, r. 219, Sumario…, cit., sub S. Gieremia (1429, 1430, 1438).

[40] Sono del resto frequenti le grazie che consentono al beneficato “quod possit atterrari facere extra tantum quantum fecerunt sui vicini” (ASV, Grazie, r. 16, c. 60v: 1366), o “di poter slongar il suo territorio tanto quanto si estende li altri suoi convesini” (ASV, SEA, r. 219, Sumario…, cit., 1438).

[41] ASV, Maggior Consiglio, l. Civicus, c. 104 (26 agosto 1316); ASV, Senato Misti, r. 31, c. 138v (21 marzo 1366).

[42] ASV, Notatorio di Collegio, r. 4, c. 158 (24 settembre 1410 e 27 febbraio 1414).

[43] F. Brunello, Arti e mestieri a Venezia nel Medioevo e nel Rinascimento, Vicenza 1981, pp. 137-154.

[44] Clodarias erano p.e. quelle presso S. Giobbe e il “rivus proprius Victoris Gonella”, di cui si legge in un contratto fra i Gonella e il doge Cristoforo Moro del 1465 (ASV, S. Giobbe, b. 5, c. 66): esse si identificano nella pianta del de’Barbari a sud-ovest del convento. Anche mediante la pubblicazione di un’interessante mappa quattrocentesca (ASV, Miscellanea atti diversi manoscritti, b. 138) S. Piasentini (In capo al rio di Cannaregio alla ricerca di San Giobbe nel tardo medioevo, in Punta San Giobbe. Storia e cronaca di un lembo di Venezia, cur. G. Caniato, Venezia 1997, pp. 13-21, a pp. 15 e 18; e successivamente Aspetti della Venezia d’acqua dalla fine del XIV alla fine del XV secolo, in Venezia la città dei rii, curr. G. Caniato, F. Carrera, V. Giannotti, Ph. Pypaert, pp. 40-67, a p. 45) identifica il rivus proprius con l’attuale rio di S. Giobbe.

[45] [Fation in Venetia al tempo de misser Andrea Contarini Doxe per la guera di Zenovesi che fo del 1379] in I prestiti della Repubblica di Venezia (secc. XIII-XV), intr. G. Luzzatto, Padova 1929, I, p. I, pp. 138-195, a p. 164: “Antonio Bon Ramboldo L. 4500, Zuan Bon Ramboldo L. 2000”; ASV, SEA, r. 219, Sumario…, cit., sub S. Gieremia: “Vettor Gonnella” e “commissaria de ser Piero Gonella”.

[46] ASV, Grazie, r. 22, c. 129; SEA, r. 219, Sumario…, cit., sub S. Gieremia: “squerro ch’è per apparte de l’altra banda del rio” (1429); ivi: “uno squerro che da fazza varda verso san Zorzi d’Alega” (1430).

[47] Ivi: “sette sue case poste a S. Geremia sopra il paludo” (1424); ivi: “una sua casetta posta a S. Gieremia appresso l’altre sue casette” (1426).

[48] F. Semi, Gli “Ospizi” di Venezia, Venezia 1983, pp. 189-197; P. Miniutti, L’ospedale di San Giobbe. Sei secoli di assistenza ai poveri, in Punta…, cit., pp. 23-33.

[49] S. Piasentini, La corte di Ca’Moro a San Giobbe. Dallo squero, alle case per i poveri marinai, ai macellai (1471-1719), in Punta…, cit., pp. 34-49.

[50] P. Antonetti, Il Macello di San Giobbe. Storia di un complesso produttivo (1843-1972), in Punta…, cit., pp. 57-73.

[51] ASV, SEA, r. 219, Sumario…, cit.,: “et fu terminado esser publico, et che tutti dovesse disatterrar”.

[52] Nei documenti più espliciti sulla questione si legge: “…quod eligantur tres boni homines et sapientes super facto canapi et picule vel picis […] habere debeant […] domos ad ponendum dictas res, si erit necesse…”: I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I, cur. G. Monticolo, Roma 1896, pp. 236-237 (ASV, Maggior Consiglio, Liber Comunis primus, c. 27: 9 maggio 1282); “…quod eligantur tres boni homines qui non sint de arte canipi, sed sint instructi ad hoc […] et teneantur ipsi tres emere vel emi facere totum canipum quod veniet Venecias, et ire vel mittere ad emendum extra Venecias, si fuerit necesse, pro isto comuni, et facere spadolari et filari atque committi ipsum canipum tantum legaliter quantum fieri poterit, pro comuni, in uno loco ubi videbitur posse fieri magis convenienter…”: ivi, pp. 240-241 (ASV, M.C., l. Pilosus, c. 38v,: 30 dicembre 1293); “…quod canapum revertatur ad primum statum, [cioè al monopolio comunale] et non possit discaricari in Venecias alibi quam in domo comunis, et ibi laborari cum illis ordinibus et modis que videbuntur…”: ivi, pp. 345-346 (ASV, M.C., l. Magnus, c. 4 v,: 31 gennaio 1300); “…aliquis non potest trahere de domo comunis refudium de canipo…”: ivi, pp. 246-247 (l. Magnus, c. 14: 6 aprile 1301); “…quia multi defectus sunt in domo canipi comunis: capta fuit pars quod […]  possint super ipsis deffectibus providere…”: ivi, p. 247 (l. Magnus, c. 30v: 7 luglio 1302); “…quod quilibet possit adducere canapum filatum Venecias […] conmittendo ipsum in domo nostri comunis…”: ivi, p. 248 (l. Magnus, c. 42: 21 febbraio 1303); la domus canipi communis era detta Tana comunis (14 febbraio 1307: ASV, M.C., l. Capricornus, c. 32); “…domus in qua laboratur canipum comunis posita in confinio sancti Yeremie possit emi pro communi…”: I Capitolari…, cit., I, p. 254 (ASV, M.C., l. Civicus, c. 57v: 17 luglio 1315); sembra riferirsi a questo acquisto la pars del 5 luglio 1317 (l. Civicus, c. 154) che ordina “quod solvatur peccunia” “de domo quam commune nostrum emit a Tantalise de Spitali de confinio S. Moysis, que possessio sita est in confinio S. Jeremie”; infine ancora il 7 novembre 1324 (I Capitolari…, cit., I, pp. 255-256; ASV, Avogaria. Raspe, I.I, c. 11) si nominano i “dominis de la Tana ad canipum” e “Franciscum magistrum ad la Tana”, in epoca nella quale il Comune non aveva ancora acquisito il lacus sancti Danielis, e della Tana delle Corderie dell’Arsenale non esisteva nemmeno il progetto: alludendo quindi certamente alla domus di S. Geremia.

[53] Le misure delle Corderie dell’Arsenale , prese da Giovanni da Zon nel 1564 c.,  una quindicina d’anni prima che se ne intraprendesse la ricostruzione rialzandone il livello, corrispondono a quelle attuali: passi 184x12, ossia m 319,90x20,86 (la lunghezza è quella del lato sud, il lato nord è un po’ più breve: m 316) (ASV, Senato Terra, f. 31 (13 dicembre 1364); v. E. Concina, L’arsenale della Repubblica di Venezia, Venezia 1984, pp. 158 e 178, note 45 e 46.

[54] W. Dorigo, Venezia…, cit., I, p. 411; ASV, Notatorio di Collegio, r. 10, c. 84 (7 agosto 1463): Il Piovego faccia scavare “el rio de Chanaregio el qual non a cavo, chiamasse el rio de chalonegi e de procuratori, dal chavo de cha Venier reto tramite fin in paludo…”; ivi, r. 14, c. 7 (12 gennaio 1490): Si scavi il “rivus Canaregli videlicet Canonice et procuratorum […] incipiendo a capite de cha Venerio et eundo recto tramite et continuando usque in paludem…”. Vedi S. Piasentini, Aspetti…, cit., pp. 62 e 66.

[55] ASV, CI.N, b. 126, 29 luglio 1343; CI.N, b. 113, 20 giugno 1374.